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I tarahumara, i più antichi ultramaratoneti

ETNOLOGIA I tarahumara sono una popolazione indigena, che vive nel Messico settentrionale, stanziatasi in vaste zone della Sierra Madre su un altopiano a 2.000 m di quota, solcato da profondi canyons, nota come Sierra Tarahumara, lungo alti bacini dei fiumi del Sonora e del Chihuahua. Lì piove poco e per lo più in estate, il clima è mite e il suolo è per lo più pietroso. Forse essi sono scesi nel Chihuahua provenienti dall’Asia, attraverso lo stretto di Bering, nel corso di una delle numerose ondate migratorie dei popoli di lingua uto-azteca. Tuttora i tarahumara abitano in grotte naturali; appartengono per lingua al gruppo Pima, ossia al ramo settentrionale della famiglia linguistica nahua[1]. Nel XVII sec., con l’arrivo dei bianchi, essi sono stati costretti ad abbandonare le fertili pianure e a ritirarsi fra le montagne, che costituivano una difesa naturale. I ruoli gerarchici presenti sono stati introdotti dai Gesuiti. La rancheria (gruppo di capanne) era l’aggregato attorno al quale si manifestava l’unità socio-economico-religiosa prima che i bianchi introducessero i villaggi. La loro economia si basa su mais, fagioli e melopopone. La versione corretta del nome trasmesso da Juan Font, il quale scoprì la tribù nel 1607, storpiandolo in tarahumara, è rarámuri, di etimologia incerta. Tra le numerose ipotesi c’è la traduzione di podisti, da rará = pianta del piede + mu, da ma = correre + il suffisso ri. I tarahumara praticano la transumanza durante l’anno e vivono sempre in gruppi familiari piccoli e distanti l’uno dall’altro. Essi non hanno un’organizzazione tribale, ma invece si è sviluppata l’ospitalità la quale, per gente che per stare insieme deve percorrere sovente parecchie miglia, è un dovere e una necessità vitale. Mentre riti quali il calcio-corsa e le feste sono elementi genuini per loro, appartenenti allo stadio culturale arcaico, altrettanto non si può affermare di religione e mitologia, invece molto influenzate dal cristianesimo[2]. Ai nostri giorni sono rimasti circa 50.000, sparsi in un territorio roccioso, aspro e selvaggio, di difficile accesso e in parte inesplorato[3]

LA CORSA I tarahumara sono i più noti praticanti dello sport del calcio-corsa, sorto forse in Arizona nei tempi antichi[4]. Nel XVI sec., essi sono già esaltanti come corrieri. Imprese specifiche di corsa sono tramandate più recentemente. Nel 1880, un tarahumara corse per ben 18 ore. Carl Lumholtz, nel 1894, ci fornisce la prima descrizione delle competizioni dei tarahumara. Due squadre composte da 4 a 20 soggetti si affrontano nel calcio-corsa. Prima di partecipare alla prova, gli atleti si astengono dal bere birra per un paio di giorni, cibandosi solo di farinata; inoltre essi si fanno massaggiare gli arti inferiori e strofinare il corpo con una pietra per rinvigorirsi. La cerimonia pre-gara prevede incensi, discorsi, canti, imposizioni di tabù. Il conto dei giri del circuito da percorrere è tenuto grazie ad alcune pietre. Le donne di solito rinfrescano con dell’acqua gli atleti durante la corsa e possono fornirgli del cibo. Lumholtz riferisce altresì di una corsa di 21miglia, conclusa in 2h21’. Le gare femminili seguono le modalità di quelle maschili su scala ridotta e le donne corrono a petto nudo[5]. Felipe Ruiz racconta gare con due squadre formate da atleti di diversi villaggi anche se della medesima regione, della durata da 5 a 26 ore, ove tutte le famiglie sospendono le loro attività in quanto il giorno di corsa è un giorno di festa[6]. Un’altra fonte descrive corse che durano sino a due giorni e una notte. Tali manifestazioni si svolgono in genere ogni anno. Tuttavia ‒ ora che i tarahumara sono cristianizzati ‒ altre competizioni si tengono tutte le domeniche. I corridori procedono scalzi, senza sandali, lungo percorsi di andata e ritorno[7]. Durante i tre giorni che precedono la gara, i corridori si spalmano sulle gambe dei preparati vegetali. La notte precedente essi si dedicano a una serie di cerimonie. Durante la corsa gli atleti consumeranno caffè, mescal, farinata, frittelle e si serviranno di preparati magici. Anche questa fonte riferisce di gare femminili simili a quelle maschili, con l’eccezione nella distanza da percorrere più ridotta. Verso la fine degli anni Venti del secolo scorso, i tarahumara iniziarono a partecipare a competizioni regolari di ultramaratona. Nel 1926, Tomas Zafiro vinse la Pechaca-Città del Messico di 100 km in 9h37’ e poi, nel 1928, la Sant’Antonio-Austin di 144km in 14h53’. Nel 1932, due indios tarahumara furono inviati a partecipare alle Olimpiadi nella gara di maratona: A. Terazas impiegò 2h52’ e J. Torres 2h54’. E così via, sino al 1994 con il record nell’ultramaratona del Colorado di 180km, conclusa da uno di loro in 17h42’32”. Nelle ultramaratone, è famosa l’impresa dell’atleta tarahumara che corse nel 1888, da Guazopan a Chihuahua, per 960km in 5 giorni. Inoltre si menziona quella di un altro, che nel 1920 coprì 340km in 24 ore. Una spedizione statunitense del 1975 riferisce di donne che corrono con gonne lunghe in una gara di 50miglia[8]. Nel 1991, una sfida tra due atleti terminò dopo 15 ore. Le straordinarie capacità di resistenza, unite in genere a un regime nutrizionale di appena 1.500 calorie, con 75% di carboidrati, 12% di proteine, 13% di grassi, con prevalenza di mais, fagioli e frutta, hanno altresì attirato l’attenzione degli specialisti della medicina, che hanno effettuato interessanti studi sin dagli anni Settanta. Si ricorda altresì l’esibizione di quattro tarahumara alla Roma City Marathon del marzo 1996, finalizzata alla rivendicazione della propria dignità e dei propri diritti, di ricostituzione della propria “anima”, in questo caso però unita a obiettivi di cassetta, per dare ossigeno a una società assai bisognosa quale quella di codesti indios[9].

MOTIVAZIONI SPORTIVE Per i tarahumara la corsa riveste un ruolodi tale importanza, ch’essi ritengono che nell’aldilà i morti vi si dedichino a piacimento; allora essi seppelliscono i defunti con il necessario per le competizioni. Il motivo del successo di questa pratica sportiva risiede nell’entrata in circolo dell’energia divina di cui in ogni circostanza essi abbisognano. Il podismo è espressione di tale essenza vitale. Essi vi si identificano a tal punto da essersi probabilmente dati come nome proprio quello di podisti (rarámuri). Le due attività principali delle loro due divinità principali sono quelle celesti, solare quella maschile e lunare quella femminile, note con i nomi Nostro Padre e Nostra Madre, il dio Onorùame, ritenuto il concetto religioso originario di codesti indios. I portatori di torce, durante le prove svolgono la funzione dei servitori degli dèi e così si deduce che il calcio-corsa sia un rito indirizzato sia a Nostro Padre che a Nostra Madre. Questo è uno dei pochi casi di pellirossa che corrono durante al notte. Ciò ribadisce la natura lunare della corsa notturna tra i popoli primitivi. Si può allora supporre che questi tarahumara abbiano sviluppato un tipo di atletica da ultramaratoneti, proprio in quanto la corsa rappresenta una forma di dialogo tanto con il Dio diurno maschile che con il Dio notturno femminile. Peculiare è la dimensione spirituale dell’atleta tarahumara: il podista è la Grande Anima, il Santo, colui che più di ogni altro si trova vicino a Dio; per tale motivo egli è anzitutto l’essere che può recare i maggiori benefici al proprio gruppo.

Romayne Wheeler, musicista e scrittore, nato nel 1942 in California, nel 1982 entrò in contatto con i tarahumara e ne rimase affascinato dalla loro cultura, la loro filosofia di vita così pregna di valori etici e spirituali. Allora, nel 1992, decise di trasferirsi nella Sierra Tarahumara. Ne riportiamo una poesia, che racchiude il senso di questo popolo “mistico”:

L’ARTE DI VIVERE

Tu vivi e ciò che vivi ti cambia,

Tu guidi la rotta della tua storia.

dà un’esperienza all’altra

si trasforma il tuo modo di sentire.

Tu componi la musica della tua vita[10].


[1] Cfr. AA.VV., “Tarahumara”, in DEI, Roma 1960, vol. XI, 933.

[2] Cfr. W. BENNETT – R. ZINGG, Los Tarahumaras, 1978, 537ss.

[3] Cfr. R. WHEELER, L’albero della vita, Associazione Culturale “Tarahumara”, Roma 2002, 91.

[4] Cfr. M. MARTINI, Laggiù nell’Arizona, in Atletica, 1995/2, 70-72.

[5] Cfr. C. STEWART, Games of the North American Indians, 1983, 276.

[6] Cfr.  F. RUIZ, Acercamiento al Tarahumar, s.d., 97-98.

[7] Cfr. M. MARTINI, Il segreto dei Tarahumara, in Atletica, 1998/1, Roma, 52.

[8] Cfr. W. BENNETT – R. ZINGG, op. cit., 455; 509-517.

[9] Cfr. M. MARTINI, Il segreto dei Tarahumara, in Atletica, 1998/1, 50.

[10] R. WHEELER, L’albero della vita, Associazione Culturale “Tarahumara”, Roma 2002, 63.

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