Testa o cuore? Cosa comanda di più nel running?
Gabriele Ferretti, esperto di neuroscienze e curatore su Correre della rubrica UltraMente, descrive le risposte, non di rado contrastanti, a questa domanda e racconta come abbiano approcciato il problema le differenti correnti di pensiero.
Se parliamo con i maratoneti di lungo corso (e quindi lunga corsa) ci sarà probabilmente capitato di sentirci raccontare con rassegnata ironia il “segreto” su come si fa a correre una maratona: “I primi 30 chilometri con le gambe, i successivi 10 con la testa, i restanti 2 con il cuore e gli ultimi inesorabili 195 metri… sognando!”.
Gli amatori che corrono la maratona, insomma, “la prendono con filosofia”, ma in ogni epoca i più grandi filosofi e scienziati sono rimasti affascinati dalla domanda su dove si trovi il vero centro di comando del nostro corpo, se nel cervello o nel cuore.
Gabriele Ferretti descrive su Correre, le risposte, non di rado contrastanti, a questa domanda e racconta come abbiano approcciato il problema le differenti correnti di pensiero.
Cuore o cervello?
“Se sia più importante il cuore o il cervello è domanda molto antica, che affollava già i pensieri dei filosofi greci – premette Gabriele Ferretti-. Encefalo-centristi e cardio-centristi hanno a lungo dibattuto su quale di questi due organi potesse rappresentare la sede dell’animo umano. Per i primi, il cervello, per i secondi, il cuore. Entrambi appaiono cruciali nella vita degli umani, e tali sono anche da una prospettiva scientifica: se il cuore smette di battere, cessiamo di vivere; se il cervello smette di funzionare, rimaniamo sì vivi, ma dentro un livello di vita che forse non varrebbe la pena di essere vissuta. Il funzionamento di entrambi gli organi, poi, è strettamente correlato: niente cuore vuol dire niente sangue neanche per il cervello.”
Cerebro-endurance o cardio-endurance?
“Il ruolo di cervello e cuore, però – prosegue il nostro esperto-, è di particolare interesse per lo scienziato dell’endurance, che si chiede: “Quale dei due, nell’endurance, a un certo punto ci fa fermare? È il sistema cardiocircolatorio a stabilire l’impossibilità di andare avanti, a seguito dello sforzo? Oppure è il cervello che, anche se la situazione cardio-circolatoria non è drastica, ci ferma?
Uno sforzo cardiocircolatorio avrà una ricaduta sulla stanchezza muscolare, sul fiato corto, e finanche sul cervello. Durante lo sforzo fisico, data la limitata quantità di sangue del corpo, alcune zone vengono irrorate da esso in maggior quantità a discapito di altre. E questo vale anche per il cervello.
Per motivi di autoconservazione, però, anche il cervello pone un limite all’ultrarunner: durante una attività dispendiosa, infatti, una bandierina di allarme, che prende le sembianze di un velo di stanchezza o di dolore, viene sventolata prima che le energie siano effettivamente terminate (una sorta di spia di riserva neurobiologica).”
Le riflessioni sono nate da discipline che spesso sfuggono alla nostra curiosità, dalla neuro-fenomenologia alla cardio-fenomenologia, che infine trovano il modo di confluire nella neuro-cardio-fenomenologia aerobica, le cui conclusioni finiscono per entusiasmare il nostro stesso esperto: “E forse comprenderemo finalmente tutta la complessità della fusione tra corpo, cervello e cuore, nella nostra soggettiva, peculiare, privata, unica, viscerale, corporea, ma soprattutto magnifica e impareggiabile esperienza dell’ultracorrere allo sfinimento”.
Nota: Questo testo rappresenta una sintesi del servizio “Testa o cuore?”, di Gabriele Ferretti, pubblicato su Correre n. 475, alle pgg. 84-89.